italiano

Il savantismo viene identificato come “sindrome” (del “Savant”, appunto) e non come malattia vera e propria, per la quale siano riconosciuti criteri standardizzati di diagnosi (Muñoz-Yunta J. A. et al., 2003). La definizione è quella di una rara condizione in cui soggetti con disfunzioni dello sviluppo (in particolare, i tipici disturbi dell’autismo), nettamente in antitesi con le marcate limitazioni complessive, dimostrano straordinarie abilità in alcuni ambiti specificamente circoscritti. La definizione che ci fornisce Darold A. Treffert, nel suo “Islands of genius”, parla di “spettacolari isole di talento o intelligenza che spiccano per il loro paradossale contrasto con la gravità dell’handicap”. In maniera del tutto informale, questo autore ne distingue tre categorie: i dotati di abilità “frammentarie”, in grado di memorizzare un insieme di dati poco significativi; i “talentuosi”, con competenze in un settore ampio, e dalle abilità evidentemente in controtendenza rispetto ai loro handicap; i “prodigi”, dotati di capacità comunque sorprendenti, anche qualora non fossero associate ad alcuna invalidità. Le cause sarebbero per lo più genetiche, anche se non si escludono quelle acquisite, ed eventualmente compresenti con altri disturbi dello sviluppo, quali lesioni cerebrali, malattie contratte in fase pre-natale, natale, post-natale, nell’infanzia, e persino più tardi. Circa la metà delle persone affette dalla “sindrome del Savant” presentano disturbi autistici (compreso l’Asperger), mentre l’altra metà sviluppa altri tipi di disabilità, a partire dal ritardo mentale, sindrome di Gilles de la Tourette, sindrome di Opitz-Kaveggia… Alcuni di loro sono portatori di evidenti anomalie neuropatologiche (come, ad esempio, la mancanza del corpo calloso), localizzate in particolare nell’emisfero cerebrale sinistro. “… Non tutti i savant sono autistici e non tutti gli autistici sono savant…” afferma Treffert, mentre altri sostengono invece che i tratti caratteristici dell’autismo e le capacità dei savant potrebbero essere strettamente intrecciati fra di loro. La sindrome del savant è dalle 4 alle 6 volte più frequente negli uomini che nelle donne, e questa differenza non si può spiegare solamente per via della preponderanza maschile tra i soggetti autistici, per cui, secondo alcuni, potrebbe essere un eccesso di testosterone in circolo durante la vita fetale a limitare lo sviluppo dell’emisfero sinistro, favorendo la migrazione di cellule in quello destro. Secondo un’altra ipotesi, alla base di questa condizione ci sarebbe una carenza di neuroni “specchio”, le speciali cellule cerebrali che permettono un apprendimento per imitazione. Chi, come i pazienti affetti da autismo, non possiede la naturale predisposizione a immedesimarsi negli altri, e quindi a imitarli, cioè non è in grado di “rispecchiarsi” e socializzare, sarebbe costretto, per stare al mondo, a sviluppare strategie di apprendimento alternative, come la memoria, la musica, i calcoli o il “senso del tempo”, tutte capacità che possono essere apprese e potenziate senza dover necessariamente interagire con il prossimo. Un po’ tutti i savant hanno in comune una prodigiosa capacità mnemonica: una “memoria molto profonda (piuttosto accurata e dettagliata) sebbene molto ristretta” (poiché circoscritta a pochi ambiti); si tratta però di un’eccezionalità “senza cognizione”. Un ”idiot savant” potrebbe manifestare, oltre a quelle notevoli capacità (talented o prodigious skills) tipiche della sindrome del savantismo, e ai disturbi autistici, anche delle cosiddette splinter skills, ovvero schegge di abilità, o “competenze immediate”, frammentarie, come, ad esempio, un collezionismo ossessivo di dati da memorizzare, totalmente non ricollegabili al resto della propria quotidianità. Si tratta, in ogni caso, di una sindrome abbastanza rara, tanto che, nell’ultimo secolo, se ne sono contati meno di un centinaio di casi. Ad esempio, James Henry Pullen, il “genio dell’ospizio di Earlswood”, sordomuto, era bravissimo nel costruire modellini di navi, come un carpentiere altamente qualificato. I gemelli Charles e George, di New York, erano soprannominati “calendari umani” perché in grado di indovinare in quale giorno della settimana sarebbe andata a cadere qualsiasi data loro proposta. Alonzo Clemons, dal quoziente intellettivo piuttosto basso (40), dopo un’occhiata di sfuggita, riesce a plasmare con la creta figure animali identiche agli originali reali. Leslie Lemke, non deambulante, non vedente, nonostante i gravi danni cerebrali, è in grado di riprodurre al pianoforte, dopo averli appena uditi, brani musicali molto complessi. Il notevole numero di savant autistici e non vedenti, abili specialmente in campo musicale (il prodigio del jazz Matt Savage, il filippino suonatore di marimba Thristan Mendoza, l’americano Tony DeBlois, l’inglese Derek Paravicini…), starebbe quasi a riprova di una curiosa ricorrente triangolazione di cecità, autismo e genio musicale. Daniel Paul Tammet, autistico inglese, oltre a una memoria molto sviluppata, dimostra un ricco assortimento linguistico e spiccate potenzialità matematiche. La forma di autismo di cui è affetto questo soggetto corrisponde alla sindrome di Hans Asperger, che si differenzia dalla malattia identificata da Leo Kanner, nel 1943, per via dei minori deficit intellettivi e delle migliori prestazioni linguistiche. Difatti, l’autismo di Kanner si caratterizza proprio per le difficoltà comunicative, con inevitabile indebolimento delle relazioni sociali, la mancanza di empatia, con tendenza a trattare le persone “come se fossero oggetti”, la ridotta sfera di interessi, nonché “un desiderio ansioso e ossessivo di preservare la monotonia”. Tammet ha esordito con uno smodato impegno verso le cose futili, il collezionismo fine a se stesso, l’impulso a contare qualsiasi cosa, la conoscenza enciclopedica circa un noto complesso rock; inoltre, la sua difficoltà di astrazione faceva aderire pedissequamente le sue azioni alla lettera. In questa peculiare forma di autismo, in cui vengono compromesse le relazioni sociali ma non le capacità percettive e cognitive, si avverte un’irresistibile attrazione verso il ragionamento matematico, e nei confronti di tutte quelle attività tese a comporre “ordine” nelle cose, come le classificazioni, dalle quali poter ricavare un effetto rassicurante. Agli “Asperger” risultano invece incomprensibili i doppi sensi e disorientanti i giri di parole, che pure rientrano tra le espressioni, verbali e non, della comunicazione ordinaria, per cui la loro lettura della mimica e della gestualità non distingue lo scherno, la malizia, l’allusione. Sarebbe la diversità del percorso mentale a favorire pertanto imprevedibili sbocchi collaterali. In questo specifico caso, le rare patologie che potrebbero aver contribuito all’insorgenza del savantismo consisterebbero anche in un disturbo della percezione in cui si ottiene un intreccio di sensazioni (sinestesia), del quale esisterebbero molte varianti, ad esempio: i suoni evocano immagini, oppure, come in Tammet, ad assumere consistenza, forma, colore, e perfino tono emotivo, sono i numeri (Baron-Cohen S. et al., 2007). “I numeri sono immagini mentali dotati di forme e colori, che mi danno particolari sensazioni – racconta Daniel nel libro “Born on blue day” (2007) – Per esempio il 333 è amabile, il 289 è orrendo… Come la Monna Lisa e una sinfonia di Mozart, anche il pi greco ha una sua ragione per essere amato”. Le sue facoltà mnemoniche e matematiche sarebbero quindi facilitate da questa capacità di associare sensazioni ed emozioni a informazioni “fredde” e inerti come i numeri. Il neuropsicologo, discepolo e collaboratore di Lev Vygotsskij, Aleksandr Romanovic Lurija, a cui si deve la teoria di come le attività cerebrali superiori siano processi derivanti dall’interconnessione di sistemi che investono più aree funzionali cerebrali, anche molto diverse tra loro per caratteristiche e topologia, ha studiato il caso del reporter russo Solomon Šhereshevsky. Ogni suono avvertito da quest’ultimo possedeva un colore, uno spessore, un gusto, evocandogli un complicato intreccio di sensazioni. “Insomma, le parole accendevano l’immaginario mentale di Š”, scrive Joshua Foer, in “L’arte di ricordare tutto” (Longanesi, Milano 2011), nel sottolineare lo stretto legame esistente tra linguaggio e memoria, a lungo analizzato da Lurija. Il giovane giornalista era incapace di pensare in modo figurato. Costretto alla visualizzazione di ogni singola parola e all’abbinamento di immagini, la metafora gli era sconosciuta e la poesia impossibile, perché ogni cosa doveva venire ridotta alla prosaica semplicità della lettera. Tutte le nostre memorie sono interconnesse in una rete di associazioni, ma quelle prodotte da Solomon erano davvero eccessive e nient’affatto funzionali, tanto da compromettere seriamente ogni facoltà di astrazione. Lurija conobbe il caso di Solomon Šhereshevsky nel maggio del 1928 e lo studiò per trent’anni, riportandolo poi in uno di quelli che viene ancora oggi considerato tra i classici della letteratura scientifica che prenda in considerazione la psicologia cosiddetta “anormale”: “Malen’kaja knizka o bol’soj pamjati” (piccolo libro di una grande memoria). La chiave per decifrare la causa di questa psicopatologia Lurija la definì “arte dell’oblio”. L’errore di fondo, sempre che di “errore” si possa parlare, di Solomon Šhereshevsky era quello di ricordare troppo. In fondo, affinché il mondo che ci circonda acquisti senso, deve venire sottoposto a una qualche opera di filtraggio. E’ del tutto normale che i ricordi siano sottoposti a un ordinario e lento declino, che segue la cosiddetta curva della dimenticanza. Un’informazione acquisita persiste nella memoria per un certo periodo di tempo, viepiù allentandosi fino a tendere a scomparire. In un’ora circa si perde quasi la metà dei dati afferrati, dopo un mese ne rimane meno di un quarto, per rimanere, da quel momento in poi, quasi costanti, poiché consolidati nella memoria a lungo termine. In “Über das Gedächtnis” (1885), Hermann Ebbinghaus (1850-1909) riportò gli esperimenti compiuti su di sé, dai quali concluse che, pur aumentando il numero di ripetizioni, la memorizzazione si accresce, ma sino ad una certa soglia (effetto del superapprendimento); che, per ricordare meglio, bisogna suddividere l’apprendimento in più sedute tra loro distanziate, piuttosto che insistere ad apprendere tutto in una volta (apprendimento massivo e distributivo); la posizione di quanto va memorizzato rende più facile il ricordo di ciò che sta all’inizio e alla fine di una lista, piuttosto che di quello che si trova nel mezzo (effetto seriale); la memoria dei dati appresi diminuisce con il trascorrere del tempo, ma si dimentica in modo più marcato nelle prime ore e meno dopo, in quanto, superato il primo indebolimento, le tracce mnesiche diventano più tenaci (curva dell’oblio). L’impossibilità di rievocare i ricordi non sarebbe determinata da una loro errata archiviazione, ma dalla loro progressiva scomparsa. In base alle ricerche condotte, nel ventennio tra il 1934 e il 1954, sui pazienti epilettici, da parte del neurochirurgo canadese Wilder Penfield (1891-1976), a cui va attribuita la rappresentazione dell’omuncolo motorio e dell’omuncolo sensoriale sulla corteccia primaria, gli psicologi avevano dedotto invece che la registrazione mnesica dei dati, anche di quelli ai quali il cervello non avesse prestato che una minima attenzione cosciente, sarebbe stata permanente; l’eventuale instabilità andava imputata alla difficoltà di accesso, e il recupero si sarebbe potuto eventualmente rendere possibile grazie a delle tecniche specifiche, come l’ipnosi (Loftus E. & Loftus G., 1980). Nel 1984, lo psicologo olandese Willem Wagenaar ha condotto su se stesso degli esperimenti finalizzati alla valutazione del recupero della memoria dei sei anni precedenti, scoprendo che circa un quinto degli avvenimenti più lontani, per poter essere rievocato, necessita di precisi suggerimenti su dettagli ragguardevoli e particolari di una qualche intensità (Wagenaar W., 1986). Ciononostante, quello della tanto decantata memoria “fotografica” sembra sia un fenomeno poco plausibile, confuso probabilmente con l’esperienza “eidetica”, un’immagine residua vivida che comunque permane nella mente per poco tempo. Richard Wawro, artista autistico scozzese, quasi cieco, si era specializzato nell’esecuzione di paesaggi realizzati con dovizia di particolari, notevoli anche per la forza dell’impatto creativo e la profondità dei colori; ricorreva ad una tecnica pittorica particolare, impiegando dei pastelli ad olio, e soprattutto non usò mai modelli, disegnando sulla base di immagini viste per poco, una sola volta. Ma, nonostante possedesse una perfetta memoria delle fonti dei suoi dipinti, spesso aggiungeva, come licenza “poetica”, qualche tocco personale. Il savant autistico inglese Stephen Wiltshire, detto “the living camera”, da scrupoloso “architectural artist”, riesce a riprodurre, dopo averli osservati per pochi minuti, ampi paesaggi, o skyline di intere città, con dettagliati elementi decorativi di monumenti, palazzi e grattacieli… ma nient’altro, o meglio, non una pagina scritta, come magari ci si aspetterebbe. Nel 1917, Georges Malcolm Stratton (1865-1957), lo psicologo noto per le sue ricerche nel campo dell’adattamento percettivo, si occupò degli ebrei ultraortodossi polacchi (Shass Pollack) che, in maniera maniacale, imparano a memoria tutte le 5422 pagine del Talmud babilonese, scoprendo che la loro impressionante precisione non era sostenuta dalla cosiddetta memoria fotografica, bensì riconducibile alla determinazione ed alla perseveranza nello studio. Più recentemente, Eleanor A. Maguire (2000) ha evidenziato nei sedici tassisti londinesi, da lei e dal suo gruppo sottoposti a risonanza magnetica cerebrale, un maggior sviluppo della parte posteriore destra dell’ippocampo, quella coinvolta nella navigazione spaziale, che risultava maggiorata di una percentuale esigua (il sette per cento, rispetto ai controlli), ma comunque significativa, visto che l’effetto della modificazione appariva pronunciata proporzionalmente alla durata dell’energico lavoro di ricerca dei percorsi stradali. Ciò significa che, entro certi limiti, seguendo il modello della neuroplasticità, il cervello è sempre in grado di riorganizzarsi e riadattarsi alla registrazione di nuove informazioni. Con la collaborazione, poi (2003), anche degli autori della monografia “Superior Memory” (1997), John M. Wilding ed Elizabeth R. Valentine, la Maguire analizzò, grazie alla risonanza magnetica funzionale, l’attività cerebrale degli “mnemonisti” (atleti della mente) impegnati in procedure di vigorosa memorizzazione, scoprendo che anche questi, al contrario dei soggetti di controllo, sovraccaricano di lavoro le aree cerebrali preposte alla navigazione spaziale e alla memoria visiva, quindi ancora l’ippocampo posteriore destro. La spiegazione poteva essere rintracciata nella particolare tecnica, impiegata dagli “atleti della mente”, pur non sinesteti congeniti, come il soggetto studiato da Lurija, di convertire coscientemente le informazioni da memorizzare in immagini da distribuire lungo un percorso spaziale, il classico “palazzo della memoria”, di cui ci parla la leggenda di Simonide di Ceo. Una forma di sinestesia artificiale, che facilita l’associazione di un dato con qualcosa che si possa immaginare senza sforzo alcuno. Ma se le cose stanno così, allora, perché è tanto difficile associare nomi a volti? (“Why is it difficult to put names to faces?”) come si intitola appunto il classico esperimento di Gillian Cohen (1990) sul cosiddetto “paradosso Baker/baker” (“Panettiere/panettiere”, intesi nel senso e del cognome e del mestiere). Chi è informato della professione del volto fotografato (e proposto nel test “name face pairs”) ha più probabilità di ricordarsi anche il cognome, grazie al dato memorizzato in più, perché il riferimento ulteriore si ricollega a una maggiore rete di concetti già preesistenti, rappresentati in nodi o gruppi di neuroni, tipicamente associati a quel precipuo lavoro (panettiere-panetteria-forno-pane-aroma-alzarsi presto al mattino-indossare un caratteristico cappello…). Il richiamo alla mente soltanto di nomi è invece più difficile, specialmente senza altre informazioni di identità personali, proprio perché i nomi sono privi di significato e quindi mancano delle associazioni semantiche. Il termine “savant”, fino al XIX secolo aveva avuto una connotazione altamente qualificante. Definire “sapiente” conferiva qualità di erudizione, attribuiva conoscenze, indicava alte facoltà di elaborazione di idee astratte. Il premio Nobel Charles Robert Richet (1850-1935), in un suo curioso libello (Le savant), del 1927, riservava tale titolo a chi “consacrava le proprie energie alla ricerca della verità”, aggiungendo comunque l’intento: “…je voudrais montrer (à propos de mes recherches) combien, dans une découverte quelconque, médiocre ou importante, notre rôle personnel se ramène à peu de chose, si peu de chose que ce n’est rien… Pourtant on reconnaîtra que le hasard doit être aidé par la persévérance”. In ciò fu precursore dello psicologo cognitivo Michael Howe, che sosteneva: “A differenza di quanto comunemente creduto, il genio non è un dono speciale elargito magicamente a pochissimi fortunati. I geni arrivano a realizzare le opere o a effettuare le scoperte per cui sono universalmente apprezzati in due fasi piuttosto lunghe, e che in parte si sovrappongono: la prima in cui acquisiscono capacità particolari che dovranno utilizzare, la seconda in cui esprimono la creatività che li porterà alla scoperta o al capolavoro”. L’analisi delle biografie di persone eccellenti aveva permesso al professore di Exeter di individuare una serie di caratteristiche comuni: grande interesse per il proprio lavoro, impegno costante, forte senso di indipendenza, concentrazione straordinaria, tolleranza alle frustrazioni, capacità di sopportare uno sforzo mentale prolungato. Quindi… l’aiuto della “persévérance”, tanta perseveranza e determinazione, quelle stesse che Georges Malcolm Stratton aveva individuato tra gli studiosi del Talmud babilonese. Poi, può intervenire la serendipità, una casualità esterna a scatenare l’intuito dell’eureka: il bagno in acqua di Archimede, la mela di Newton, la muffa di Penicillium sulle colture batteriche di Fleming… “Il caso – soleva dire Louis Pasteur – favorisce le menti preparate”. Il termine in questione, “savant”, non ebbe niente in comune con facoltà fuori dal normale, o con prodigi mnemonici, fino a quando, nel 1887, John Langdon Haydon Down (1828-1896), divenuto famoso per la sindrome genetica che porta il suo nome, non coniò l’ossimoro “idiot savant”, che sottolinea la compresenza di qualità anomale con deficienza intellettiva. La definizione già allora era impropria, in quanto “idiot” specificamente inquadrava il ritardo mentale quantificato come inferiore a un Quoziente Intellettivo di 20-25, mentre la maggior parte dei casi di savantismo si manifestavano in soggetti con QI superiore a 40. Quando cominciò a non essere più accettabile quello che ormai era divenuto un epiteto ingiurioso, si passò alla denominazione “autistic savant”, fin quando non fu accertato che solo alla metà di questi pazienti poteva essere diagnosticata la sindrome di Kanner. L’attuale denominazione di “savantismo” nasce quindi soprattutto quale conseguenza di accuratezza diagnostica, ma anche in segno di rispetto verso la dignità di ogni persona, che sia malata o sana, uguale o diversa. Indubbiamente il più famoso savant, alla cui vicenda si è ispirato Barry Morrow, l’autore del soggetto del film di Barry Levinson, “Rain Man” (1988), per il personaggio interpretato da Dustin Hoffman, resta Kim Peek, in cui il cervelletto risultava dilatato e i due emisferi non comunicanti tra loro, a causa dell’assenza sia del corpo calloso sia della commessura anteriore. Più che di autismo, la sindrome del personaggio del film (Raymond Babbit), nel caso di Kim-puter (come lo chiamavano gli amici), si parlerebbe di quella rara malformazione genetica collegata al cromosoma X, causa di ritardi nello sviluppo psichico e di anomalie fisiche (quali macrocefalia, ipotonia congenita, imperforazione dell’ano), sindrome di Opitz-Kaveggia o FG sindrome. Le facoltà straordinarie dei savant riguardano, per lo più, quelle in cui è specializzato l’emisfero cerebrale di destra, come le capacità visive e spaziali, mentre risultano difettose le attività di competenza del sinistro, quale il linguaggio. Per certi versi, qualcosa di simile accadrebbe, secondo Bruce L. Miller e altri (1998), ai pazienti affetti da demenza fronto-temporale, qualora la degenerazione riguardi l’emisfero sinistro; mentre le facoltà cognitive vanno scemando, prenderebbe sopravvento e maggior rilievo la creatività visiva e musicale. In una certa misura, alcune abilità, seppure eccezionali, potrebbero essere slatentizzate da una disinibizione, quella dalla tirannia dell’emisfero dominante sinistro. Allorquando cioè si è sottratti all’obbligo di archiviare dati, fatti, cifre, o nomi, nella cosiddetta memoria dichiarativa, concedendo loro accesso all’interno del sistema più primitivo della memoria “non” dichiarativa, che funziona senza l’intervento del pensiero cosciente, e alla quale facciamo comunemente ricorso per imparare a camminare, nuotare o ad andare in bicicletta, afferrare al volo un oggetto, oppure disegnare. Per esercitare quest’ultima dote, occorre infatti inquadrare una forma, contornandola di linee astratte, tracciando un bordo che escluda lo spazio negativo, e con esso la procedura cosciente che impedirebbe questa serie di azioni. Lo spegnimento della “tirannia dell’emisfero sinistro dominante” potrebbe essere indotto artificiosamente da una tecnologia capace di disattivare alcune parti del cervello in modo selettivo e temporaneo. Si tratta della stimolazione magnetica transcranica (TMS), che usa un campo magnetico localizzato, allo scopo di neutralizzare l’emissione degli impulsi elettrici prodotta da certe aree neuronali. In ambito terapeutico, viene impiegata solitamente nella cura dell’emicrania, del disturbo post-traumatico da stress, o della depressione, ma l’impiego che se ne può fare in campo sperimentale sembra molto più intrigante. Allan Whitenack Snyder e la sua équipe hanno utilizzato la stimolazione magnetica transcranica ripetitiva (rTMS) per inibire il lobo temporale sinistro (il cui danno è implicato nella condizione di savant) di persone normali, inducendo in alcuni di loro un miglioramento nella capacità di contare rapidamente i punti che compaiono molto velocemente su di uno schermo, calcolandone esattamente il numero (“numerosity skills”). Anche l’abilità di tracciare a mente disegni molto accurati viene destata con lo stesso procedimento, tanto da spingere il neuroscienziato australiano a definire l’rTMS “la macchina per amplificare la creatività”. L’attenuarsi dei ricordi sarebbe piuttosto un fenomeno del tutto naturale, organico, determinato da una progressione degenerativa delle cellule cerebrali. “Oggi, – scrive Joshua Foer – quasi tutti concordano sul fatto che gli esperimenti di Penfield sconfinassero nel campo delle allucinazioni e avessero più a che fare con i sogni e con i déjà vu che con i ricordi veri e propri”. Jorge Luis Borges, in uno dei racconti della raccolta “Finzioni”, “Funes, o della memoria”, ha descritto una versione romanzata di un personaggio dalla memoria infallibile, menomato però dall’impossibilità di dimenticare, per cui alla fine non riesce a distinguere le cose rilevanti da quelle banali. Una memoria troppo accurata è dunque incapace di generalizzazioni e perciò stesso non riesce a stabilire ordini di priorità. “La nostra conoscenza del cervello – sostiene Joshua Foer, in “L’arte di ricordare tutto” (2011) – è paragonabile a quella che avremmo di una città se la guardassimo da un aereo. Riusciremmo a localizzare le aree industriali e residenziali, l’aeroporto, le principali arterie del traffico, e sapremmo più o meno dire dove inizia la periferia. Conosciamo piuttosto bene, e con dovizia di particolari, l’aspetto delle singole unità che la popolano (i cittadini e, nella nostra metafora, i neuroni). In linea di massima, però, non sapremmo dire dove vada a mangiare una determinata persona, come si guadagni da vivere o quale tragitto compia ogni giorno. Il cervello ci appare leggibile a distanza molto ravvicinata e da molto lontano. E’ il livello intermedio – la sostanza del pensiero e del ricordo, nonché il suo linguaggio – il grande mistero.” Le esperienze dei tassisti londinesi, che si costruiscono delle mappe cerebrali, degli mnemonisti che esplorano i “palazzi della memoria”, dei sinesteti congeniti e di quelli che dell’associazione di sensazioni hanno fatto una tecnica per meglio memorizzare, confermano che un ricordo, per essere ripescato, necessita di una percezione che lo riproponga. Sono i nodi, nella rete delle interconnessioni, che consentono l’attività creativa e facilitano la rievocazione della memoria. Creatività e memoria non seguono una logica lineare, per cui è impossibile una loro sequenzialità o consultazione. Una parola fa pensare si a un colore, a un gusto, a un gesto, a un’attività, ma ciò avviene quasi come in una cascata di impulsi che investano un percorso cerebrale concretamente ricollegato a una serie di neuroni, i quali ne codificano i concetti. Cosicché l’approfondimento della psicologia della memoria non può trascurare lo studio della psicologia della percezione.

español

El savantismo se identifica como un “síndrome” (del “Savant”, precisamente) y no como una enfermedad real, para la que se reconocen criterios diagnósticos estandarizados (Muñoz-Yunta J. A. et al., 2003). La definición es la de una condición rara en la que sujetos con disfunciones del desarrollo (en particular, trastornos típicos del autismo), claramente en contraste con las marcadas limitaciones generales, demuestran habilidades extraordinarias en algunas áreas específicamente limitadas. La definición que da Darold A. Treffert, en su “Islas de genio”, habla de “islas espectaculares de talento o inteligencia que destacan por su paradójico contraste con la gravedad de la discapacidad”. De manera totalmente informal, este autor distingue tres categorías: los dotados de habilidades "fragmentarias", capaces de memorizar un conjunto de datos insignificantes; los "talentosos", con competencias en un amplio sector, y con capacidades que evidentemente van en contra de la tendencia de sus handicaps; los "prodigios", dotados de habilidades sorprendentes, aunque no estuvieran asociadas a ninguna discapacidad.Las causas son en su mayoría genéticas, aunque no se excluyen las adquiridas, y posiblemente coexistentes con otros trastornos del desarrollo, como lesiones cerebrales, enfermedades contraídas en la fase prenatal, natal, postnatal, en la infancia e incluso más tardíamente. . Aproximadamente la mitad de las personas afectadas por el "síndrome de Savant" tienen trastornos autistas (incluido el síndrome de Asperger), mientras que la otra mitad desarrolla otros tipos de discapacidad, empezando por el retraso mental, el síndrome de Gilles de la Tourette, el síndrome de Kaveggia… Algunos de ellos son portadores del síndrome. anomalías neuropatológicas evidentes (como, por ejemplo, la falta del cuerpo calloso), localizadas en particular en el hemisferio cerebral izquierdo. “…No todos los sabios son autistas y no todos los autistas son sabios…” dice Treffert, mientras que otros argumentan que los rasgos característicos del autismo y las habilidades de los sabios podrían estar estrechamente entrelazados entre sí.El síndrome de Savant es de 4 a 6 veces más frecuente en hombres que en mujeres, y esta diferencia no puede explicarse únicamente por la preponderancia masculina entre los sujetos autistas, por lo que, según algunos, podría tratarse de un exceso de testosterona en circulación durante la vida fetal para limitar el desarrollo del hemisferio izquierdo, favoreciendo la migración de células en el derecho. Según otra hipótesis, la base de esta enfermedad es la falta de neuronas "espejo", las células cerebrales especiales que permiten el aprendizaje por imitación. Quienes, como los pacientes autistas, no tienen la predisposición natural a identificarse con los demás y, por tanto, a imitarlos, es decir, no son capaces de "reflejarse" y socializar, se verían obligados a estar en el mundo, para desarrollar estrategias alternativas de aprendizaje, como la memoria, la música, el cálculo o el "sentido del tiempo", todas habilidades que pueden aprenderse y potenciarse sin necesariamente tener que interactuar con otros.Casi todos los sabios tienen en común una prodigiosa capacidad mnemotécnica: una "memoria muy profunda (más bien precisa y detallada) aunque muy limitada" (ya que limitada a unas pocas áreas); sin embargo, se trata de una excepcionalidad "sin cognición". Un "sabio idiota" podría demostrar, además de aquellas habilidades notables (habilidades talentosas o prodigiosas) típicas del síndrome de savantismo y de los trastornos autistas, también las llamadas habilidades fragmentadas, es decir, habilidades fragmentadas, o "habilidades inmediatas". fragmentario, como, por ejemplo, una recopilación obsesiva de datos para memorizar, totalmente inconexos con el resto de la vida cotidiana. En cualquier caso, se trata de un síndrome bastante raro, hasta el punto de que, en el último siglo, se han registrado menos de cien casos. Por ejemplo, James Henry Pullen, el "genio sordomudo del asilo de Earlswood", era muy bueno construyendo modelos de barcos y era un carpintero altamente calificado. Los gemelos Charles y George, de Nueva York, fueron apodados "calendarios humanos" porque eran capaces de adivinar en qué día de la semana caería una fecha determinada.Alonzo Clemons, con un coeficiente intelectual bastante bajo (40), tras una mirada fugaz, consigue moldear en arcilla figuras de animales idénticas a los originales reales. Leslie Lemke, que no puede caminar y es ciega, a pesar de sufrir graves daños cerebrales, es capaz de reproducir piezas musicales muy complejas en el piano, después de haberlas escuchado. El notable número de sabios autistas y ciegos, especialmente hábiles en el campo musical (el prodigio del jazz Matt Savage, la marimba filipina Thristan Mendoza, el estadounidense Tony DeBlois, el inglés Derek Paravicini...), sería casi la prueba de una curiosa triangulación recurrente de ceguera, autismo y genio musical. Daniel Paul Tammet, un inglés autista, además de una memoria muy desarrollada, demuestra un rico dominio de idiomas y un fuerte potencial matemático. La forma de autismo que padece este sujeto corresponde al síndrome de Hans Asperger, que se diferencia de la enfermedad identificada por Leo Kanner en 1943 por tener menores déficits intelectuales y un mejor rendimiento lingüístico.De hecho, el autismo de Kanner se caracteriza precisamente por dificultades de comunicación, con un inevitable debilitamiento de las relaciones sociales, falta de empatía, con tendencia a tratar a las personas "como si fueran objetos", una reducida esfera de intereses, así como "una deseo ansioso y obsesivo por preservar la monotonía”. Tammet comenzó con un compromiso desmedido por las cosas triviales, el coleccionismo como fin en sí mismo, el impulso de contarlo todo, el conocimiento enciclopédico sobre una conocida banda de rock; además, su dificultad para la abstracción hizo que sus acciones se ciñeran servilmente a la letra. En esta peculiar forma de autismo, en la que se comprometen las relaciones sociales pero no las capacidades perceptivas y cognitivas, existe una atracción irresistible hacia el razonamiento matemático, y hacia todas aquellas actividades encaminadas a crear "orden" en las cosas, como las clasificaciones, a partir de las cuales se puede Se puede obtener un efecto tranquilizador. Para los "Asperger", sin embargo, los dobles sentidos son incomprensibles y los giros de frase desorientan, aunque se encuentran entre las expresiones verbales y no verbales de la comunicación ordinaria, por lo que su lectura de las expresiones faciales y los gestos no distingue la burla, la malicia, la alusión.Sería la diversidad del camino mental lo que favorece, por tanto, salidas colaterales impredecibles. En este caso concreto, las raras patologías que podrían haber contribuido a la aparición del savantismo consistirían también en un trastorno de la percepción en el que se obtiene una mezcla de sensaciones (sinestesia), de la que habría muchas variantes, por ejemplo: los sonidos evocan imágenes. , o, como en Tammet, son los números los que adquieren consistencia, forma, color e incluso tono emocional (Baron-Cohen S. et al., 2007). “Los números son imágenes mentales con formas y colores, que me producen sensaciones particulares – dice Daniel en el libro “Nacido en el día azul” (2007) – Por ejemplo, el 333 es adorable, el 289 es horrendo… Como la Mona Lisa y una sinfonía de Mozart. , incluso pi tiene su propia razón para ser amado." Por tanto, sus facultades mnemotécnicas y matemáticas se verían facilitadas por esta capacidad de asociar sensaciones y emociones con información "fría" e inerte como los números.El neuropsicólogo, discípulo y colaborador de Lev Vygotsskij, Aleksandr Romanovic Luria, a quien debemos la teoría de cómo las actividades cerebrales superiores son procesos derivados de la interconexión de sistemas que involucran múltiples áreas cerebrales funcionales, incluso muy diferentes entre sí en cuanto a características. y topología, estudió el caso del reportero ruso Solomon Shereshevsky. Cada sonido escuchado por este último tenía un color, un espesor, un sabor, evocando una complicada mezcla de sensaciones. “En resumen, las palabras iluminaron la imaginación mental de Š”, escribe Joshua Foer, en “El arte de recordarlo todo” (Longanesi, Milán 2011), subrayando el estrecho vínculo entre lenguaje y memoria, analizado detalladamente por Lurija. El joven periodista era incapaz de pensar en sentido figurado. Obligado a visualizar cada palabra y combinar imágenes, la metáfora le era desconocida y la poesía imposible, porque todo debía reducirse a la prosaica sencillez de la letra. Todos nuestros recuerdos están interconectados en una red de asociaciones, pero las producidas por Salomón eran realmente excesivas y nada funcionales, hasta el punto de comprometer seriamente cualquier facultad de abstracción.Luria conoció el caso de Solomon Shereshevsky en mayo de 1928 y lo estudió durante treinta años, relatándolo luego en uno de los que todavía hoy se considera entre los clásicos de la literatura científica que toma en consideración la llamada psicología "anormal": "Malen' kaja knizka o bol'soj pamjati” (pequeño libro de un gran recuerdo). La clave para descifrar la causa de esta psicopatología Luria la definió como el "arte de olvidar". El error básico de Solomon Shereshevsky, si es que podemos hablar siquiera de un "error", fue recordar demasiado. Después de todo, para que el mundo que nos rodea tenga sentido, debe estar sujeto a algún trabajo de filtrado. Es completamente normal que los recuerdos sufran un lento y habitual declive, que sigue la llamada curva del olvido. Una información adquirida persiste en la memoria durante un determinado periodo de tiempo, volviéndose gradualmente más suelta hasta tender a desaparecer. En aproximadamente una hora, casi la mitad de los datos capturados se pierden, al cabo de un mes queda menos de una cuarta parte, para permanecer, a partir de ese momento, casi constantes, a medida que se consolidan en la memoria a largo plazo.En “Über das Gedächtnis” (1885), Hermann Ebbinghaus (1850-1909) relató los experimentos realizados sobre sí mismo, de los cuales concluyó que, aunque aumenta el número de repeticiones, aumenta la memorización, pero hasta cierto umbral (efecto de sobreaprendizaje); que, para recordar mejor, el aprendizaje debe dividirse en varias sesiones espaciadas, en lugar de insistir en aprender todo de una vez (aprendizaje masivo y distributivo); la posición de lo que se va a memorizar hace que sea más fácil recordar lo que está al principio y al final de una lista, en lugar de lo que está en el medio (efecto serie); el recuerdo de los datos aprendidos disminuye con el paso del tiempo, pero se olvida más marcadamente en las primeras horas y menos después, ya que, una vez pasado el primer debilitamiento, las huellas mnémicas se vuelven más tenaces (curva del olvido). La imposibilidad de evocar los recuerdos no estaría determinada por su incorrecto archivado, sino por su progresiva desaparición.A partir de las investigaciones realizadas en los veinte años transcurridos entre 1934 y 1954 sobre pacientes epilépticos por el neurocirujano canadiense Wilder Penfield (1891-1976), a quien se atribuye la representación del homúnculo motor y del homúnculo sensorial en la corteza primaria, los psicólogos habían propuesto en cambio dedujo que el registro mnémico de datos, incluso aquellos a los que el cerebro había prestado sólo una mínima atención consciente, sería permanente; cualquier inestabilidad debía atribuirse a la dificultad de acceso, y la recuperación posiblemente podría haber sido posible gracias a técnicas específicas, como la hipnosis (Loftus E. & Loftus G., 1980). En 1984, el psicólogo holandés Willem Wagenaar realizó experimentos sobre sí mismo destinados a evaluar la recuperación de la memoria de los seis años anteriores, descubriendo que aproximadamente una quinta parte de los acontecimientos más lejanos, para ser recordados, requieren sugerencias precisas sobre detalles notables y detalles de cierta intensidad (Wagenaar W., 1986). Sin embargo, la tan cacareada memoria "fotográfica" parece ser un fenómeno inverosímil, probablemente confundido con la experiencia "eidética", una viva imagen residual que, sin embargo, permanece en la mente por un corto tiempo.Richard Wawro, artista escocés autista y casi ciego, se especializó en la ejecución de paisajes creados con gran detalle, destacando también por la fuerza del impacto creativo y la profundidad de los colores; recurrió a una técnica pictórica particular, utilizando pasteles al óleo, y sobre todo nunca utilizó modelos, dibujando a partir de imágenes vistas brevemente, sólo una vez. Pero, a pesar de tener una perfecta memoria de las fuentes de sus cuadros, a menudo añadía, a modo de licencia "poética", algunos toques personales. El sabio autista inglés Stephen Wiltshire, conocido como "la cámara viviente", como escrupuloso "artista arquitectónico", consigue reproducir, tras observarlos durante unos minutos, grandes paisajes, o horizontes de ciudades enteras, con detallados elementos decorativos de monumentos. , edificios y rascacielos... pero nada más, o mejor dicho, ni una página escrita, como cabría esperar.En 1917, Georges Malcolm Stratton (1865-1957), psicólogo conocido por sus investigaciones en el campo de la adaptación perceptiva, se ocupó de los judíos ultraortodoxos polacos (Shass Pollack) que, obsesivamente, memorizaron las 5.422 páginas del Talmud babilónico, descubriendo que su impresionante precisión no estaba respaldada por la llamada memoria fotográfica, sino atribuible a la determinación y perseverancia en el estudio. Más recientemente, Eleanor A. Maguire (2000) destacó un mayor desarrollo de la parte posterior derecha del hipocampo, la implicada en la navegación espacial, en los dieciséis taxistas londinenses, a quienes ella y su grupo sometieron a resonancia magnética cerebral, que aumentó en un pequeño porcentaje (siete por ciento, en comparación con los controles), pero sigue siendo significativo, dado que el efecto de la modificación pareció pronunciado proporcionalmente a la duración del enérgico trabajo de búsqueda de rutas viales. Esto significa que, dentro de ciertos límites, siguiendo el modelo de la neuroplasticidad, el cerebro siempre es capaz de reorganizarse y readaptarse al registro de nueva información. Con la colaboración, pues (2003), también de los autores de la monografía “Superior Memory” (1997), John M. Wilding y Elizabeth R.Valentine, Maguire analizó, gracias a la resonancia magnética funcional, la actividad cerebral de los "mnemonistas" (atletas de la mente) que practicaban intensos procedimientos de memorización y descubrió que también éstos, a diferencia de los sujetos de control, sobrecargan las áreas del cerebro con el trabajo responsable de la navegación espacial. y memoria visual, por lo tanto nuevamente el hipocampo posterior derecho. La explicación podría encontrarse en la técnica particular, utilizada por los "atletas de la mente", aunque no sinestésicos congénitos, como el sujeto estudiado por Luria, de convertir conscientemente la información que se debe memorizar en imágenes que se distribuirán a lo largo de un recorrido espacial, la clásico "palacio de la memoria", del que nos habla la leyenda de Simónides de Ceos. Una forma de sinestesia artificial, que facilita la asociación de un dato con algo que se puede imaginar sin ningún esfuerzo. Pero si este es el caso, ¿por qué es tan difícil asociar nombres con caras? (“¿Por qué es difícil poner nombres a las caras?”), como es el título del clásico experimento de Gillian Cohen (1990) sobre la llamada “paradoja Baker/baker” (“Baker/baker”, entendida en el sentido de ambos el apellido y el oficio).Quienes conocen la profesión del rostro fotografiado (y propuesto en la prueba "parejas de nombres y rostros") tienen más probabilidades de recordar también el apellido, gracias a los datos adicionales almacenados, porque la referencia ulterior está vinculada a una red más amplia de conceptos preexistentes, representados en nodos o grupos de neuronas, típicamente asociados a ese trabajo concreto (panadero-panadería-horno-sabor del pan-levantarse temprano por la mañana-llevar un sombrero característico...). Recordar nombres por sí solo es más difícil, especialmente sin otra información de identidad personal, precisamente porque los nombres no tienen significado y, por lo tanto, carecen de asociaciones semánticas. El término "savant" tuvo una connotación altamente calificativa hasta el siglo XIX. Definir "sabio" confería la cualidad de erudición, atribuía conocimientos, indicaba altas facultades de elaboración de ideas abstractas.El Premio Nobel Charles Robert Richet (1850-1935), en uno de sus curiosos folletos (Le savant) de 1927, reservó este título para aquellos que "consagraron sus energías a la búsqueda de la verdad", añadiendo sin embargo la intención: ". ..je verás (en vista de mis solicitudes) combinado, de una manera para descubrir lo que es, mediocre o importante, nuestro personal de rol recuerda hasta cierto punto, si eliges lo que no está allí... Pourtant en recordar que tienes Les pedí que te ayudaran por la persévérance”. En esto fue un precursor del psicólogo cognitivo Michael Howe, quien argumentó: “A diferencia de lo que comúnmente se cree, el genio no es un don especial otorgado mágicamente a muy pocas personas afortunadas. Los genios llegan a crear las obras o a hacer los descubrimientos por los que son universalmente apreciados en dos fases bastante largas y en parte superpuestas: la primera en la que adquieren habilidades particulares que tendrán que utilizar, la segunda en la que expresan la creatividad que conducirlos al descubrimiento o a la obra maestra”.El análisis de las biografías de personas excelentes permitió al profesor de Exeter identificar una serie de características comunes: gran interés por el propio trabajo, compromiso constante, fuerte sentido de independencia, concentración extraordinaria, tolerancia a la frustración, capacidad de resistir esfuerzos mentales prolongados. Entonces... la ayuda de la "persévérance", mucha perseverancia y determinación, las mismas que Georges Malcolm Stratton había identificado entre los estudiosos del Talmud babilónico. Entonces puede intervenir una casualidad, una aleatoriedad externa que desencadena la intuición del eureka: el baño de Arquímedes en agua, la manzana de Newton, el moho Penicillium en los cultivos bacterianos de Fleming... “El azar – decía Louis Pasteur – favorece a las mentes preparadas”. El término en cuestión, "savant", no tenía nada que ver con facultades extraordinarias, ni con prodigios mnemotécnicos, hasta que, en 1887, John Langdon Haydon Down (1828-1896), que se hizo famoso por el síndrome genético que lleva su nombre, le propuso no acuñó el oxímoron "idiota sabio", que subraya la copresencia de cualidades anómalas con deficiencia intelectual.La definición ya era inapropiada en ese momento, ya que "idiota" enmarcaba específicamente el retraso mental cuantificado en menos de un coeficiente intelectual de 20-25, mientras que la mayoría de los casos de savantismo ocurrían en sujetos con un coeficiente intelectual superior a 40. Cuando comenzó lo que había ahora Ya no era aceptable un epíteto insultante, se cambió la denominación de "sabio autista", hasta que se comprobó que sólo la mitad de estos pacientes podían ser diagnosticados con el síndrome de Kanner. La actual denominación de "savantismo" surge, por tanto, sobre todo como consecuencia de la precisión diagnóstica, pero también como signo de respeto a la dignidad de cada persona, ya sea enferma o sana, igual o diferente. Sin duda el sabio más famoso, cuya historia inspiró a Barry Morrow, autor de la historia de la película de Barry Levinson, “Rain Man” (1988), para el personaje interpretado por Dustin Hoffman, sigue siendo Kim Peek, en quien el cerebelo estaba dilatado y los dos hemisferios no se comunicaban entre sí, debido a la ausencia tanto del cuerpo calloso como de la comisura anterior.Más que autismo, el síndrome del personaje de la película (Raymond Babbit), en el caso de Kim-puter (como lo llamaban sus amigos), se denominaría esa rara malformación genética ligada a anomalías físicas (como macrocefalia, enfermedades congénitas hipotonía, imperforación del ano), síndrome de Opitz-Kaveggia o síndrome de FG. Las extraordinarias facultades de los sabios se refieren principalmente a aquellas en las que el hemisferio cerebral derecho está especializado, como las capacidades visuales y espaciales, mientras que las actividades del hemisferio cerebral izquierdo, como el lenguaje, son defectuosas. En cierto modo, algo similar les sucedería, según Bruce L. Miller y otros (1998), a los pacientes que padecen demencia frontotemporal, si la degeneración afecta al hemisferio izquierdo; mientras las facultades cognitivas disminuyen, la creatividad visual y musical tomaría el relevo y ganaría mayor importancia. Hasta cierto punto, algunas capacidades, aunque excepcionales, podrían verse socavadas por una desinhibición, la de la tiranía del hemisferio izquierdo dominante.Es decir, cuando se libera de la obligación de archivar datos, hechos, cifras o nombres, en la llamada memoria declarativa, otorgándoles acceso dentro del sistema más primitivo de la memoria "no" declarativa, que funciona sin la intervención de pensamiento consciente, y que comúnmente utilizamos para aprender a caminar, nadar o andar en bicicleta, agarrar un objeto o dibujar. Para ejercitar esta última habilidad es necesario enmarcar una forma, rodeándola de líneas abstractas, trazando un borde que excluya el espacio negativo, y con ello el procedimiento consciente que impediría esta serie de acciones. Apagar la "tiranía del hemisferio izquierdo dominante" podría inducirse artificialmente mediante una tecnología capaz de desactivar algunas partes del cerebro de forma selectiva y temporal. Se trata de estimulación magnética transcraneal (EMT), que utiliza un campo magnético localizado, con el objetivo de neutralizar la emisión de impulsos eléctricos producidos por determinadas zonas neuronales. En el ámbito terapéutico se suele utilizar en el tratamiento de migrañas, trastorno de estrés postraumático o depresión, pero parece mucho más intrigante el uso que se puede hacer de él en el ámbito experimental.Allan Whitenack Snyder y su equipo utilizaron estimulación magnética transcraneal repetitiva (EMTr) para inhibir el lóbulo temporal izquierdo (cuyo daño está implicado en la condición de savant) de personas normales, induciendo en algunos de ellos una mejora en la capacidad de contar rápidamente las puntos que aparecen muy rápidamente en una pantalla, calculando su número exactamente (“habilidades de numerosidad”). Incluso la capacidad de dibujar dibujos muy precisos en la mente se despierta con el mismo procedimiento, hasta el punto de que el neurocientífico australiano definió la rTMS como "la máquina para amplificar la creatividad". La atenuación de los recuerdos sería más bien un fenómeno orgánico y completamente natural, determinado por una progresión degenerativa de las células cerebrales. "Hoy", escribe Joshua Foer, "casi todo el mundo está de acuerdo en que los experimentos de Penfield rayaban en alucinaciones y tenían más que ver con sueños y déjà vu que con recuerdos reales".Jorge Luis Borges, en uno de los cuentos de la colección "Ficciones", "Funes o la Memoria", describió una versión ficticia de un personaje con una memoria infalible, pero deteriorada por la imposibilidad de olvidar, por lo que al final no puede. distinguir las cosas relevantes de las triviales. Una memoria demasiado precisa es, por tanto, incapaz de generalizar y, por tanto, incapaz de establecer órdenes de prioridades. “Nuestro conocimiento del cerebro – afirma Joshua Foer, en “El arte de recordarlo todo” (2011) – es comparable al que tendríamos de una ciudad si la miráramos desde un avión. Podríamos localizar las zonas industriales y residenciales, el aeropuerto, las principales arterias de tráfico, y podríamos decir más o menos dónde empiezan los suburbios. Conocemos bastante bien, y con gran detalle, el aspecto de las unidades individuales que lo pueblan (los ciudadanos y, en nuestra metáfora, las neuronas). Sin embargo, en general no sabríamos decir dónde va a comer una persona en particular, cómo se gana la vida o qué camino toma cada día. El cerebro nos parece legible desde muy cerca y desde muy lejos.Es el nivel intermedio –la sustancia del pensamiento y la memoria, así como su lenguaje– el gran misterio”. Las experiencias de los taxistas londinenses que construyen mapas cerebrales, de los mnemonistas que exploran los "palacios de la memoria", de los sinestésicos congénitos y de quienes han hecho de la asociación de sensaciones una técnica para memorizar mejor, confirman que un recuerdo, para ser pescado salir, requiere una percepción que lo proponga nuevamente. Son los nodos, en la red de interconexiones, que permiten la actividad creativa y facilitan la recuperación de la memoria. La creatividad y la memoria no siguen una lógica lineal, por lo que su secuencialidad o consulta es imposible. Una palabra hace pensar en un color, un sabor, un gesto, una actividad, pero esto sucede casi como en una cascada de impulsos que afectan una vía cerebral concretamente reconectada a una serie de neuronas, que codifican los conceptos. De modo que el estudio de la psicología de la memoria no puede descuidar el estudio de la psicología de la percepción.

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